From Abitare, a report on the last day of the Athens Biennial, by lovely Paola Nicolin.
Text follows in Italian, check-out the original link
"A ventiquattro ore dalla chiusura di Heaven, la seconda edizione della Biennale di Atene, una visita guidata alla mostra con l’architetto responsabile dell’exhibition design Andreas Angelidakis.
Inviato da Paola Nicolin - 18.10.2009
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testo e foto di / text and photos by Paola Nicolin
La strada che collega l’aereoporto di Atene al centro città è una Miami degli shopping mall, o un Sunsetboulevard di compagnie telefoniche. È una strip ininterrotta di edifici commerciali, depositi di grandi marchi, concessionarie automobilistiche, mega showroom che vendono dai materassi ai mattoni. Tutti bianchi. La mia destinazione è Faliro Delta, un’area dove la città incontra la costa. Qui è stata allestita “Heaven”, la seconda edizione della Biennale di Atene.
Dopo la seconda guerra mondiale, la zona ha perso la sua vocazione a “riviera”, diventandone una zona abbandonata, una sorta di limbo disabitato, stretto tra la città e il mare. Prima il turismo, poi la desolazione, poi di nuovo il turismo indotto dall’evento sportivo - qui sono sorti alcuni degli edifici che hanno ospitato le Olimpiadi del 2004 –, caduta in disuso subito dopo. È zeppa di rovine festanti di un recente passato (lo stadio, il mega parcheggio che lo circonda, il gigantesco ponte-passerella, pensato più per watussi che per esseri umani, i multi-sala e i fast food). Ce ne sono così tanti che il taxista – costretto a rallentare la marcia- si perde dentro questa gimcana di cemento e non trova la sede della Biennale. E si che insisto nel dire che si tratta di un evento internazionale, che si intitola HEAVEN mica per niente e che l’indirizzo è giusto perché me l’ha dato l’architetto che l’ha fatta! Ne sono così sicura che lo chiamo al telefono e lo faccio parlare con il taxista: ci giravamo attorno da un’ora. La Biennale è nascosta sotto ad una High Line venuta male.
Il 4 ottobre è l’ultimo giorno utile per visitarla. La seconda edizione dell’esposizione internazionale di arti visive, apertasi subito dopo Venezia, nel giugno 2009, chiude subito dopo la vernice di quella di Lione e di Istanbul. Nell’altalena del sistema biennale, quella di Atene si inserisce perfettamente nel cuore delle tratte europee dei globe trotter dell’arte contemporanea. Sarà perché qui vive Dakis Joannu, uno dei collezionisti più influenti del mondo – che con fondazione a carico (la Deste Foundation) e tanto altro riesce a soffiare sulla città un bel vento caldo, che attira galleristi e appassionati d’arte –, o sarà perché l’Acropoli è ancora l’opera d’arte contemporanea più strabiliante del mondo o sarà forse perché Atene ha visto crescere spontaneamente una nuova generazione sveglia, curiosa, che ha studiato nel mondo (come i “vecchi” stile Elia Zenghelis) e poi ha voluto “tornare” a fare qualcosa in città…sta di fatto che nell’arco di pochi anni Atene ha letteralmente trasformato se stessa, puntando moltissimo sulla necessità di una rottura con il passato, una forma di distruzione intelligente del sua storia, in grado di fare spazio al futuro senza per questo rinunciare alla propria memoria. Roba che a dirlo in Italia ci prendono per turchi! Eppure questa è realtà nella capitale della Grecia classica. E la biennale ne è un esempio. La mostra è organizzata dalla Athens Biennale Non-Profit Organization, fondata nel 2005 da Xenia Kalpaktsoglou, Poka-Yio, and Augustine Zenakos. Il lancio è avvenuto nel 2007, nel momento più booming del sistema arte contemporanea, ma come manifestazione internazionale- e sarà questa forse la ragione della sua sopravvivenza - nasceva come risposta a una necessità, al bisogno di raccontare la storia di una città in trasformazione che aveva scelto di esprimersi nel linguaggio delle arti visive. Con “Destroy Athens” il trio che aveva fondato la manifestazione la curava pure, scrivendo nel catalogo che la mostra era una storia: “A story, though, is not a dissertation. A story may be a story about a rupture in the same way that it can be a story about anything. A story is something which happens to a subject, to a potential “someone”. A story can face the question: what if all is not going to be alright? What if someone decides to try their luck, to raise their voice, to engage in conflict, to abolish consent, to destroy Athens?”. Nella prima edizione - tempi di vacche grasse - lo sponsor che ne reggeva lo start-up si chiamava Deutsche Bank. A due anni di distanza, vuoi la crisi, il main sponsor non c’è più. E questo fa male alle tasche di chi fa i conti a mostra chiusa, ma aguzza macchiavellicamente l’ingegno di chi ha lavorato al suo making of. E visto che la storia la fanno le persone, una delle figure che meglio rappresenta questa rottura produttiva con il passato mista alla capacità di produrre nuovi scenari a basso costo con la storia è proprio Andreas Angelidakis, architetto che mi aspetta all’ingresso della Biennale di cui ha curato il progetto espositivo.
Andreas è uno dei “giovani ateniesi” che dopo aver studiato e lavorato all’estero a deciso di tornare ad Atene. Anche per la Biennale. “Sentivo che qualcosa stava cambiando e che potevo fare qualcosa qui.” Nato ad Atene nel 1968 si laurea in architettura alla Southern California Institute of Architecture SCI-ARC di Los Angeles e nel 1995 consegue un Master a Columbia University. Per formazione e per passione, la sua ricerca è un processo magmatico di cultura digitale e produzione architettonica. S’interessa alla contaminazione dei linguaggi tra arte e architettura, lavora alla progettazione di spazi architettonici dove lo sviluppo della tecnologia digitale e della rappresentazione stile Second Life gioca un ruolo fondamentale come antidoto alla pesantezza del costruire sotto l’Acropoli. Progetta case, musei, facciate, allestimenti per mostre e installazioni, hotel, meeting point, set per mobili e librerie dove si respira un’atmosfera allucinata: funzionale e psichedelico allo stesso tempo.
“Questo è un ponte pedonale, che collega la città al mare”, dice mentre camminiamo dal parcheggio all’ingresso della mostra. ”Un tipico esempio di rovina moderna post-olimpiadi: un deposito costruito durante l’affare dei giochi, che non è mai stato usato; una struttura allo stesso tempo piccolo borghese e provinciale, pseudo classicheggiante, dalle colonne color salmone. Un vorrei, ma non posso. Vorrebbe caratterizzarsi come area post-industriale, mentre invece riflette solo l’estetica da centro commerciale, la tipologia da villaggio suburbano senza ironia. Uno spazio che vorrebbe essere un garage abbandonato dove fare “del contemporaneo” e che invece è solo uno spazio vuoto sotto ad un ponte.” E in effetti la sede della Biennale non è niente: ed è pure nascosta dietro al mega stadio costruito anche quello in occasione dei Giochi Olimpici del 2004. Da “Destroy Athens”, la biennale questa volta s’intitola “Heaven”, ragionando anche questa volta in chiave paradossale e provocatoria, immaginando cioè di fare un passo in avanti nella storia della distruzione di Atene, verso la costruzione di un Paradiso di sapore miltoniano, gotico e immaginifico, occupando quel limbo stretto tra un glorioso passato e un futuro “hard to predict”.
“Heaven” è dunque una mostra divisa in cinque aree, affidate alla curatela di altrettanti curatori, che hanno chiamato i loro progetti con altrettanti sotto titoli programmatici.
Nell’ex deposito di materiale costruito per le Olimpiadi ma poi rimasto del tutto inutilizzato, persino durante il periodo dei giochi, si susseguono, in ordine, le visioni di Chus Martinez con The World Question Center, Diana Baldon con For the straight way is lost, Cay Sophie Rabinowitz con Splendid Isolation, Athens, Nadja Argyropoulou con Hotel Paradies e Christopher Marinos con How many angels can dance on the head of a pin?
Tenere insieme due teste non è facile, figuriamoci cinque. Eppure, le concrete difficoltà e limitazioni di uno spazio espositivo come questo parallelepipedo piuttosto largo, sul cui tetto corre il tratto finale di quel passage pedonale, che sembra progettato più per watussi che per esseri umani e che collega la città al mare, devono aver fatto da coagulante tanto quanto la mano di Andreas, che ha lavorato in questo spazio nero e imperfetto, aggiungendo imperfezione e oscurità, portando alla luce le “ruins of reality”.
Il percorso si apre con una doppia parete di specchi. Metafora della mostra come entrata interattiva nel sé o della città come imbuto che punta a indirizzare il pubblico nel cuore dei problemi e delle domande che l’arte solleva, o ancora stratagemma per spostare l’attenzione del pubblico in transito dalla zona di accoglienza e biglietteria all’osservazione della propria immagine nello spazio dilatato. Anche il progetto per la biennale si gioca sulla commistione tra funzionalità e allucinazione. E lo specchio è una scelta attraverso la quale Andreas fa nuovo un edificio vecchio, riportandolo allo stadio iniziale. Superato il tunnel entriamo nelle sale di Martinez, dove dei pannelli di cemento grezzo sono appoggiati obliqui alle pareti o alle colonne stesse.
L’effetto è di rovina sulla rovina. Povero + Povero = Ricco. La scelta piace alla curatrice della sezione che prende il titolo da un lavoro del 1969 di James Lee Byars. “Non mi ha fatto cambiare nulla”. Risaltano allora le opere da stendere o appendere come il lavoro di Thomas Bayrle e i bellissimi video di Luke Fowler, di Babette Mangolite, Dorothy Iannone, Roberto Cuoghi.
Nella parte successiva, l’aria si fa scura. Soffitti ribassati, tanti armadi e armadietti che formano un labirinto basso e sconnesso, dove a ogni passo rischi la capocciata. Un anfratto o una grotta, lo spazio è stretto e i tanti video in mostra ( bellissimi quelli da vedere dentro agli armadietti graffitati di Christoph Schlingensief) sono come dei punti di luce nella caverna.
Usciti dal tunnel, è la parte della mostra a cura di Cay Sophie Rabinowitz a funzionare come camera iperbarica per gli astronauti atterrati da poco. Uno splendido isolamento bianco e immacolato aspetta qui il visitatore. La mostra, che assegna alle fotografie di Ettore Sottsass il ruolo di protagonista assoluto e struttura portante (50 Metafore Series, allineate a coppia lungo tutta la sala centrale e le colonne delle due ali laterali) avrà pure l’aspetto di una white cube sgarruppata e noiosetta, ma la finesta aperta sul porto di Adrian Williams vale il viaggio.
E poi è perfettamente incastrata tra la caverna di Baldon e l’Hotel Paradies di Nadja Argyropoulou. La sezione parte da Hotel Palenque, il memorabile lavoro di Robert Smithson: e forse anche grazie a questa scelta curatoriale che da forza a tutta la biennale, la sezione è senza dubbio la più intensa e ben costruita. In tema di desiderio irrisolto, in un trionfo di atmosfere gotiche e orfiche, di kitsch e iper concettuale, la selezione delle opere restituisce davvero una visione altra sulla realtà greca come metafora della modernità. Stretta tra grandi vecchi alla Nanos Valaoritis ai grandi giovani come la Infinite Library di Haris Epaminonda, la mostra riesce a tenere insieme i deliri di uno scultore funerario e schizofrenico come Helepas con quelli di un furbetto come Paul Chan.
All’uscita incontriamo uno dei tre fondatori della Biennale che parla ironicamente di edizione suicida: sono stati presi d’assalto le attività collaterali e la sezione off della mostra, il Heaven Live, meno la mostra canonica. Rientro in albergo con la macchina di Andreas. Facciamo un giro nel quartiere a luci rosse dove sono sorte alcune delle gallerie d’arte più attive di Atene. Tra queste, Rebecca M. Camhi, vicino alla fermata di Metaxourgeio, presenta una personale di Angelidakis e Angelos Plessas, per la quale vi consiglio una lettura della recensione su Artforum di Ottobre 2009. “Pochi mesi fa ha aperto anche Gagosian. Uno spazio piccolo, ottima location. Sono atterrati molti jet. La cena post vernice era al cafè del nuovo museo dell’Acropoli di Tchumi.” Anche qui come a Roma, Gagosian ha aperto con Cy Twombly, che per l’occasione ha dipinto delle marine di dimensioni medie. Ottime, dicono, per le dinette degli yacht o i caminetti in stile. Ma questa è un’altra storia."
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